Saggezza sugli Architravi
Pubblicato su: Il Giornale d’Italia, data sconosciuta (1942?)
ASCOLI, 22
Quando si parla di saggezza sembra sia doveroso assumere il tono compiuto e rispettoso dello scolaro quando parla al Maestro. Come se soltanto nella sapienza del passato si dovesse eternamente attingere, perdendo di vista del più recente i pensieri e del presente i principi morali, le conquiste d’ogni genere e soprattutto l’intima spirituale essenza di un’era già inquadrata nella storia politica, come in quella del pensiero.
Se poi si tratta di saggezza spicciola, quella contenuta nell’aforisma, nel salace epigramma, nella impresa o nell’ex-libris più o meno illustre ed illustrata allora non c’è niente di meglio da fare che ricorrere ai più remoti esempi e non ci accadrà certo di sentire esportare la massima di un autore vivente, a meno che non sia presentata sotto forma di citazione, inserita in uno spassoso episodio di vita.
Altro elemento indispensabile è il nome altisonante di un grande del pensiero antico segnato in coda alla briciola di saggezza; e questo per rendere autorevole la sentenza che molte volte, senza una precisa indicazione di paternità, passerebbe inosservata.
E ho voluto invece, in un vagabondare per le vecchie vie cittadine, raccogliere del sistema filosofico dei padri nostri più lontani e meno lontani, quelle briciole – appunto anonime – che descrivevano, oltre ai gusti loro, un vivace atteggiamento spirituale espresso in una forma elementare, e magari scorretta, piena di poesia.
Sono motti, programmi di vita, sentenze, scolpiti sugli archivi di talune porticciole rinascimentali sormontate da lunette a pieno sesto; oppure incise, quali impresa individuale, sui portoni di accesso tra il quattro e il cinquecento nei quartieri borghesi della città vecchia.
“Chi puo non vo, chi vo non puo, chi sa non fa, chi fa non sa, et cosi el mondo mal va.” Saggio sentenziare: e tra qualcuno che può e non vuole, altro che vuole e non può, quello che sa e non fa, l’altro ancora che fa e non sa, come si difese e visse l’ignoto filosofo e proprietario di case e magari di terre nel mondo che “mal va?”
Probabilmente facendo male non sapendo e ricevendo bene oppure rimanendo nell’ozio in attesa di eventi e di sollazzevoli distruzioni. Ed ora il suo motto è fermo nella pietra e si offre alla dissertazione profonda del turista in vena filosofica.
Ma ecco un architrave sul quale non è lecito sorridere: “Il morir con onor vita renova.” Una morte dunque che non è morte, se rinnova la vita. Un morire ch’è perpetuazione del vivere nella luce della gloria e dell’eroismo. A questo motto fa riscontro: “Chi morte teme di vita non è degno.” Oh, saggezza dei padri quanti che non son degni di vita possono esserci oggi che la morte ci è ad ogni ora compagna e non ci fa pause e la cerchiarne magari quando serve, con un certo orgoglio e certa nobile vanità quale risulta dalle voci eroiche nate sui campi di battaglia o sui contrastati cieli.
E non è un motto attuale quello che leggo ora sull’architrave di consunto travertino? “Ciò che può l’uomo fa che fortuna voglia” – piegare la fortuna al volere umano sino al possibile e magari oltre non è impresa d’oggi, di quest’oggi pieno di ardimenti che han visto tentato l’inosabile, che ha portato l’umano potere alle soglie dell’impossibile e dell’assurdo. Noi non possiamo più credere invece alla rassegnazione di quel padre lontano che segnò in cristiana umiltà: “Quel farò che Dio vorrà.”
Ma anche a Dio bisogna chiedere e bisogna muovergli incontro, senza attendere supinamente la sua grazia o l’intervento non richiesto e magari neppure desiato.
È ben vero che: “Un giorno viene che tutti gli altri avanza.” Ma perché attendere questo giorno senza muovere né cuore, né spirito, né sensi, né carne in una bestiale atomia di corpo e d’anima, contraria ad ogni legge umana e divina?
“Senza fatica non si acquista.” È questa la vera legge dell’umana fortuna. Ed è per questo ch’è d’uopo muoversi attorno e non lasciar correre il minuto senza farne un profitto morale o materiale che sia.
Ed ecco il San Tommaso da strapazzo incidere sull’architrave un motto da positivista consumato:
“Vedi qual Briareo, Tocca qual Argo.”
È il “vedere per credere” del ciarlatano o dell’imbonitore visto dal lato dello spettatore.
E voglio finire per oggi con la spavalda impresa di un antenato che mi piace ravvisare quale un lontano ascendente del mio ramo, ché nelle sue parole trovo un succo di suprema alterezza derivata da netta coscienza e che oltremodo mi garba: “Ma lassate pur dir chi pur dir vole.”
Qui da noi, come altrove, si è sempre detto e non ha importanza alcuna la voce che nasce da un presupposto immaginario, anche se comporti qualche danno, sia pur lieve e trascurabile. Val molto invece aver l’anima scevra di male e questo vuol essere un principio di vita quale si conviene all’italiano nuovo. Interrogar la coscienza ad ogni fine di giorno per meritare da se stessi prima che dagli altri. E poi dica “chi vole.”
A. Castelli