Ombre del passato sulle muraglie d’oro
L’ultimo barbaglio di sole sulla pietra tagliata dal monte San Marco sui palazzi, le torri, i templi della città.
24 agosto 1941
da Il Giornale d’ltalia (articolo ripubblicato dal “Corriere Adriatico” il 10 Ottobre 2000)
Quante volte, cadente il tramonto e scherzando l’ultimo barbaglio di sole sui travertini dorati dei palazzi, delle torri, dei templi ascolani, ci accade di pensare al lavorio dei secoli sulla bianca pietra tagliata dal monte S. Marco per ridurla al tono quale risulta nella magia di un fenomeno astrale? Quante altre – sulla traccia di un labile disegno, di poche parole incise, d’una memoria fermata nel tempo sul duro masso a regola d’arte lavorato dal mastro scalpellino – non abbiamo cercato di suscitare ombre che dai secoli aboliti ritorneranno a vivere una effimera vita a gloria o infamia della nostra terra? Tante – tante volte. E se il sole a sera esalta il volume poliedrico delle absidi di S. Francesco quasi a scoprire una quarta dimensione ideale; se carezza di striscio i conci squadrati delle vaste pareti, tingendole di accesi riverberi e d’ombre viola or più or meno grevi, ci è caro indugiare con la mente sulla somma grande di memorie legate ad ogni casa, a ciascuna torre, ad ogni tempio che nella pingua vallata del vecchio Tronto salutano ogni sera il morente sole e s’addormono al musicale canto dei grilli, sotto il peso buiore di queste notti estive senza luna.
Memoria d’ anni e di lotte di turbolenze e ribellioni – di gloria e di vergogna. E comunque, la nota dominante e il bisogno di azione, la viva tendenza alle dinamiche soluzioni dei problemi vitali che spingono gli uomini – e non solo uomini – a impugnare il ferro in difesa di un diritto che non sempre accordava con la giustizia.
Ed ecco Paolo III ammonire – il gesto benedicente è una licenza encomiastica dello scultore – dall’alto del Palazzo dei Capitani, e Giulio II tuonare dalla sua vecchia nicchia sul portale di San Francesco.
Commissari piombano da Roma per cogliere buona o mala ventura, capitani famosi partono alla volta d’Ascoli con imponenti milizie, si accendono ad ogni ora lotte sanguinose, con brevi tregue ed illusorie promesse di pace.
Tiranni sul tipo di Astolfo Guiderocchi, sconsigliati governatori che finiscono trucidati a furore di popolo, signorotti faziosi fomentatori di discordie, capitani dai polsi duri e più dure cuoia, tutte figure di tempi lontani che non sai più ravvisare nell’amico che ti siede vicino al caffè o nello sconosciuto che passa indaffarato nella via.
Ombre che furono e che tenti di identificare nelle ombre che passano. Niente da fare oggi; i tempi son mutati e non occorre munire i forti di nuovi bastioni e nuove artiglierie. Il forte Malatesta che Paolo III commise al Sangallo accoglie oggi ben tristi inquilini e non più come allora guarda la città dal poligonale minaccioso mastio. Anche questo forte, come la Rocca Paolina, fu pensato dal Papa “tra il latin del messale e quel del Bembo” per tenere a bada un gregge al pari del perugino turbolento. Anche per qui sarà stato detto: «Odi, Sangallo, fammi tu un lavoro degno di Roma, degno del tuo gusto e del pontificato Nostro d’oro». E neppure qui ebbe a mentire la fama di tanto architetto, che l’opera fu ottima cosa e ne fan fede i resti, anche se chiusi in un corpo di fabbrica posteriore. Ma a che serve ormai, se tutto il popolo oggi è d’un solo uomo e di una sola fede? lnvano guarda dall’alto la fortezza Pia dagli spalti sguarniti. Anch’essa fu in altri tempi munita d’armi nuove e d’armati e di bastioni per frenare l’ire e i bollori dei ringhiosi ascolani; serve oggi soltanto ad accogliere sotto l’ombra amica pacifiche coppie d’innamorati. Mormorano i pini muovendo le chiome odorose alla brezza dei crepuscoli e s’animano le muraglie, corse da crepe guarnite di fiori selvatici sotto la carezza delle ultime luci. Là oltre i monti, sull’orlo di due piccole nubi indugia il ricordo del sole che sta correndo verso terre dove rinasce in quest’attimo di vita. Di qua la vita si spegne e le voci scemano in forza con lo scemar della luce. È infine un sussurro pacato che rientra e si fonde nel fremito animato della notte, che cala sulle cose e gli uomini della città picena. Le pietre non sono più d’oro ormai e dormono nell’attesa di un rinnovarsi di vita.